Un trekking di una giornata sulla catena montuosa della Majella. Un’esperienza solitaria nel bel mezzo della natura selvaggia d’Abruzzo
Autore: Danilo D’Onofrio
Quando il tipo del bar mi chiese da dove venissi e io gli raccontai sommariamente della giornata, volle offrirmi quella birra fresca che tanto avevo immaginato nelle ultime ore, mentre grondavo di sudore.
La partenza
La sera prima, assieme ad un amico, andai a lasciare la mia auto nel punto di arrivo della lunga traversata che desideravo compiere. Quella sera i fari delle auto facevano fatica a penetrare il muro di pioggia che ostacolava ogni buon proposito. Mentre guidavo, e prima che iniziasse a piovere, riuscivo ancora a distinguere al crepuscolo il profilo della Majella dal versante occidentale. Al ritorno, con buio e temporale, tutto fu inghiottito come dentro una nera voragine, tranne la mia ferrea determinazione nel non lasciarmi scoraggiare da quella che sapevo fosse una fase breve e transitoria del meteo.
Ero talmente determinato e convinto che niente avrebbe potuto impedirmi di intraprendere quella traversata: dal rifugio Pomilio alla stazione di Palena, tutta la dorsale della Majella. Mi consideravo già nel vivo dell’impresa, non vi era voce che riuscisse a distogliere l’attenzione da quel pensiero fisso. Dovrebbe chiamarsi concentrazione, non saprei, ma è qualcosa che mi accade da sempre alla vigilia di qualcosa di speciale; non mi lascia neanche dormire, sicuramente è una forma di eccitazione.
Infatti quella notte volò nell’attesa e nella speranza che, per una volta nella storia del nostro pianeta, potesse essere più breve. Non ricordo niente di quella breve notte in bianco ma ricordo bene che alle 6 del mattino successivo compivo i primi passi di una lunga ed emozionante giornata. Salutai l’amico che mi accompagnò al Pomilio, mi concessi quella ultima riguardevole distrazione prima di aprire la porta che mi avrebbe condotto fuori in quel mondo parallelo, dove sarei stato ancora una volta solo con Maja.

Il fontanile Acquaviva
Era lì davanti a me in quella visione superba, baciata dai primi raggi del sole; non un alito di vento a disturbare quei primi momenti e l’atmosfera pareva più placida di sempre, come ad accogliermi in un paradiso naturale. Avrei cavalcato il profilo della Majella in tutta la sua dorsale, o almeno questo era il buon proposito. Gli scheletri di metallo che imprigionano la Majella in quel punto di partenza, scomparivano sulla scia dei miei primi passi.
L’alba decorava l’orizzonte verso est; in quei momenti ogni cosa si colora di toni caldi. Guardavo le mie braccia abbronzate ora brunite perché baciate da quei primi raggi, il versante nord delle Murelle che si concede al sole solo in pochi momenti dell’anno, le estremità dei pini mughi raggiunti dai raggi ancora bassi e le pietraie sommitali che segnano la quota dove gli unici vegetali sono rappresentati da piccoli nuclei di fiori.
Procedendo sulla cresta il giorno tardava ad arrivare, il risveglio di colori fu molto più lento e la valle dell’Orfento era ancora immersa nell’ombra del crinale che percorrevo. Il sole lentamente venne fuori e distese la sua palla infuocata sul mare, come un drappo sgargiante; distinguevo il profilo della costa verso sud e la sua curva che si protende verso il Gargano. Era un venerdì di settembre, giorno lavorativo di fine estate e di conseguenza non incontrai nessuno… fino al fontanile Acquaviva.
Con stupore, procedendo tra i fitti mughi e nel silenzio rotto soltanto dal ronzio degli insetti, mi arrivarono delle voci poco distanti, probabilmente dal fontanile ormai vicino. Erano tre donne, più mattiniere di me e che facevano provvista di acqua fresca: una tappa fissa ed obbligata per chi si accinge ad andare oltre ed iniziare la vera salita. Un breve e simpatico scambio di informazioni, convenevoli ed un breve tratto condiviso prima che loro piegassero verso il Bivacco Fusco ed io dritto per dritto verso il Monte Focalone. Erano dirette verso Monte Amaro, andata e ritorno in giornata; la cima più elevata della Majella avrebbe rappresentato per me soltanto una tappa ai due terzi circa dell’intero percorso.

Il Monte Focalone
Da quel punto ritrovai l’isolamento iniziale che mi avrebbe accompagnato per quasi tutta la giornata. La giornata era stupenda ed un clima migliore raramente mi ha accompagnato a quelle quote. Il cielo sereno e leggermente screziato da sottili stratificazioni di nuvole lasciava presagire la totale assenza di vento, un fattore normale ma a volte anche fastidioso su quei percorsi aerei. Non avevo fretta. D’altronde la fretta avrebbe sempre rappresentato un elemento di grande disturbo nell’attività che ho sempre amato gustare con la calma che richiede.
Ma il tempo era buono, potevo vivere e assorbire con tranquillità ogni istante, scattare foto, affacciarmi sul vuoto delle vallate, osservare i camosci che si rincorrevano, prendere un sasso in mano e sentirne il tepore, ammirare la perfezione dei piccoli fiori delle pietraie d’alta quota e ricordare che ero al cospetto di una montagna unica e particolare, un museo a cielo aperto. Tra i suoi numeri non conta soltanto le 20 cime oltre i 2500 metri, ma anche il 30% della flora nazionale ed il 15% di quella europea, circa 150 endemismi: un patrimonio ineguagliabile. Gli stessi pini mughi che la ricoprono tra i 1700 -2000 metri di quota, rappresentano un curioso scherzo della natura. Infatti essi si trovavo un po’ su tutte le Alpi, ma sugli Appennini hanno la loro unica grande colonia proprio sulla Majella, oltre alla piccolissima presenza nella zona della Camosciara, nel Parco Nazionale d’Abruzzo.
Raggiunsi la prima grande elevazione di Monte Focalone a quota 2600 metri e feci una breve pausa giusto per ricordare le tante volte in quel luogo che in inverno diventa quasi irriconoscibile per la gran quantità di neve che la ricopre. Ricordavo con piacere come il Focalone fosse stata l’ultima meta dell’ultima sciata della stagione in un anno dove la neve cadde abbondante e mi concessi una giornata faticosa ma di grande respiro. Quel giorno, raggiunta quella cima inforcai con gli sci lo stretto canalino che si immetteva direttamente nell’anfiteatro delle Murelle per poi risalire al Bivacco Fusco e sciare di nuovo giù per il Cavone tornando sulla via del ritorno. Era il 18 di giugno e nel pomeriggio dello stesso giorno, sci in macchina, provai il godimento di un tuffo al mare.

Direzione Monte Amaro
Da quel punto è possibile osservare tutto il percorso fino a Monte Amaro e distinguere l’arancio del Bivacco Pelino, unica nota di colore nella familiare monocromia del paesaggio. La cresta diventa un saliscendi per tre volte prima di toccare la massima elevazione; quel tratto è chiamato infatti i Tre Portoni. Lateralmente alla zona che va dal Pomilio al terzo portone si susseguono le profonde, selvagge e a volte inaccessibili valli che caratterizzano la Majella. La storia di questa mitica montagna è scritta in ogni pietra o grotta e da quegli abitanti una volta numerosi: i pastori.
Sulla sinistra si susseguivano il Vallone delle Tre Grotte verso Pennapiedimonte, la Valle di Selvaromana, il Vallone delle Mandrelle e alla fine quello lunghissimo di Santo Spirito con l’enorme dislivello che porta giù a Fara San Martino. Sulla destra c’era l’enorme imbuto che dà origine alla Valle dell’Orfento che, nella Riserva della Sfischia, rappresenta un santuario naturalistico di eccezionale interesse.
Procedevo con regolarità ed assoluta calma, lo sguardo perennemente rivolto a tutto ciò mi circondava, come fosse la prima volta in quei posti. Dopotutto ogni volta è come fosse la prima, ne resto sempre rapito allo stesso modo. Non accusavo alcuna fatica, il respiro sempre regolare, qualche sorso di acqua giusto per convenzione, diciamo la scusa buona per brevi soste e qualche scatto. Dopo circa quattro ore ero al cospetto della grande croce di vetta di Monte Amaro, l’aria ancora ferma, temperatura più che gradevole, panorama mozzafiato ed ancora solitudine perfetta. Mi concessi circa venti minuti di sosta per rifocillarmi e nel mentre arrivò silenziosamente alle mie spalle un escursionista solitario, proprio come me; saliva da Fara San Martino, impresa non per tutti!

La discesa a Guado di Coccia
Era ora di proseguire, c’era ancora tanta strada da fare e il fatto che iniziasse una lunga discesa non permetteva comunque di adagiarsi in “ozi” prolungati. Quel giorno decisi di compiere quella traversata calzando basse scarpe da trail e la scelta fu quella giusta. Esse mi permettevano una libertà maggiore senza incidere sulla sicurezza, anche perché il tipo di terreno che avrei incontrato non richiedeva necessariamente il classico scarpone. Quel tratto che scendeva da Monte Amaro verso Femmina Morta permetteva di procedere abbozzando una corsa, il terreno coperto di piccoli e piatti sassi concedeva, anzi spronava, ad un’andatura più sostenuta senza affaticare le articolazioni.
Grotta Canosa era una tappa obbligatoria di piccola sosta, tante volte usai in passato quel luogo come ricovero notturno, quando d’estate il Pelino era gremito di gente, chiasso e sporcizia. Era stata anche la prima volta su Monte Amaro per i miei figli, qualche anno prima, credo nel 2016. Salimmo dal lungo e selvaggio Vallone di Taranta e pernottammo appunto a Grotta Canosa, dove vivemmo insieme una serata e nottata indimenticabili, toccando Monte Amaro il giorno successivo all’alba, senza caricarci dei pesanti zaini che avremmo recuperato al ritorno.
Allo stesso modo mi crogiolavo nel ricordo delle tante volte d’inverno con gli sci; la croce intonacata di ghiaccio scultoreo e la lamiera del bivacco Pelino incrostata alla stessa bizzarra maniera. Pensare in quel frangente al freddo intenso di tante volte con la neve pareva surreale. Ero ormai in pantaloncini e mezze maniche, il sole settembrino era ancora potente a quell’ora e misi un cappello a ripararmi sommariamente dai suoi potenti raggi. Raggiunsi quasi volando Forchetta a Majella, mi tenni basso per evitare i tanti saliscendi. Superai la conca erbosa proprio in corrispondenza della Forchetta e mi avviai verso le creste di Tavola Rotonda.
La prima nuvolaglia innocua risaliva dalle valli adiacenti e riusciva a celare quasi totalmente la visibilità intorno. Ma ero sul sentiero ufficiale, con tanto di segnali, e comunque conoscevo molto bene l’orografia del territorio e non temevo alcun pericolo. Infatti poco dopo scorsi tra le nebbie i tralicci dismessi del vecchio skilift che saliva da Guado di Coccia, il punto più basso dell’intero percorso. Fu quello il tratto più faticoso da scendere, per via dell’erba alta e scivolosa e la pendenza che tornava ad essere accentuata. Arrivai al guado e mi concessi una meritata e necessaria sosta; cambiai i calzini, sgranocchiai qualcosa e, nella stanchezza che ora si cominciava ad avvertire, guardai il pendio non trascurabile che avrei dovuto risalire per toccare il Monte Porrara, da lì un’ultima discesa mi avrebbe condotto al punto di arrivo.

Gli ultimi passi dell’impresa
Quella sosta fu provvidenziale e come tante altre volte mi è accaduto, dopo ore ed ore di scarpinate, pare che il mio corpo possa attingere da una forza che non crede di avere. Riuscii così a coprire quel dislivello come niente fosse, con una forza che non sentivo più di possedere. Mentre arrancavo negli ultimi metri prima della croce del Porrara, percorrendo quella splendida ed affusolata cresta che la precedeva, mi voltai più volte per ammirare la discesa fatta poco prima e cercare di andare oltre con lo sguardo pur sapendo che ormai buona parte del percorso non era più visibile.
Ma bastava chiudere gli occhi e scorrere i fotogrammi di quel film appena vissuto e di cui ero unico interprete. Ero felice e basta! Ultima foto sul Porrara e quell’ultima discesa come un attore che esce dalle scene. Il sipario poteva essere finalmente chiuso, un altro sogno realizzato con la buona sorte che sempre mi ha accompagnato nella mia passione per la montagna.
Il barista è stato il primo a sapere della mia particolare escursione e una delle poche persone incontrate nell’intera giornata. Mentre gustavo quel boccale di birra, la mente già partoriva altre idee.
Un’altra impresa degna di nota all’insegna dell’avventura e dell’escursionismo su una delle catene montuose più suggestive d’Italia. Amate la Majella, ecco la nostra esperienza di due giorni sulla Majella: da Capo le Macchie a Grotta Callarelli .
Raianaraya Nature Experience


Autore
Danilo D’Onofrio
Escursionista, amante della natura e dell’avventura. Le montagne abruzzesi sono la sua seconda casa e il suo motto preferito è “Perdersi per riuscire a trovare la giusta via”.