Lago di Loie: Trekking in Gran Paradiso tra le cascate di Lillaz

Il lago di Loie, per i locali Loïe, è un bacino ad alta quota che sorge a oltre 2.300 metri s.l.m. nel cuore del Parco Nazionale del Gran Paradiso. Il lago color smeraldo è adagiato in una panoramica conca. E tra le verdeggianti guglie della montagna, apre un balcone sulle cascate di Lillaz. Ecco un’escursione da sogno in Val di Cogne.

Lago di Loie: la prima tappa nel Gran Paradiso

La Val d’Aosta è una regione italiana dall’aspetto selvaggio. Essa custodisce paesaggi incontaminati di una bellezza unica. Dal Monte Bianco al Gran Paradiso fino alle maestose pendici del monte Cervino, anche noto nel versante svizzero come Matterhorn.

Catene montuose, alti rilievi e natura selvaggia prevalgono sull’intero scenario, dando vita così ai caratteristici tratti che tanto affascinano gli appassionati di trekking ed escursionismo.

Prima di Lillaz avevamo affrontato un’escursione nell’incantevole Val Ferret, nel vano tentativo di raggiungere il Rifugio Elena a 2.061 metri s.l.m.

In questa escursione, invece, seguendo l’onda del meteo e delle condizioni atmosferiche più vantaggiose, ci siamo diretti verso la Val di Cogne. Nello specifico, nella località di Lillaz, per ammirare le sue incantevoli cascate e il lago di Loïe arroccato tra le vette delle Alpi.

Dal Monte Bianco alle Cascate di Lillaz

Dopo aver girovagato un giorno in Val Ferret, a bordo del nostro van abbiamo cominciato il nostro viaggio verso il Parco Nazionale del Gran Paradiso.

Nei piani era proprio questa la seconda destinazione del nostro itinerario on the road. Così ci siamo diretti verso Lillaz e siamo giunti nel paese nel tardo pomeriggio. Come previsto, il sole ora splendeva alto nel cielo.

Abbiamo trascorso la notte in van, cullati dal frinire dei grilli e da timidi suoni emessi da rapaci notturni. Ma è subito mattina. L’esperienza più attesa stava per prendere forma: un’escursione sul magico lago di Loïe.

La nostra avventura in montagna tocca i 2.346 m s.l.m. Il tutto seguendo un percorso ad anello che parte da Lillaz. Il trekking costeggia le cascate di Lillaz e per un sentiero piuttosto ripido conduce su una conca, proprio nei pressi del bacino idrico. Il sentiero di cui parleremo oggi è infatti l’Anello di Bardoney.

Ecco la nostra escursione!

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Alpe di Bardoney: il giro ad anello delle cascate di Lillaz

Ormai mattina, siamo svegliati dal cinguettio di uccelli e da un’aria fresca inebriante. Tutto l’ambiente circostante sembra trasmettere energia positiva.

Di fronte, le montagne domina l’intera valle e a tratti, gli occhi si posano su tracce di sentieri lontani che zigzagando scalano le scoscese pareti rocciose.

L’impulso di partire per questa nuova avventura nel Gran Paradiso è irrefrenabile. Meglio allora assecondarlo e farsi trasportare dalle emozioni. Partendo da Lillaz, appena dopo 100 metri si attraversa un ponte sul torrente. E seguendo le indicazioni per le cascate di Lillaz, comincia un’escursione al lago di Loie da sogno.

L’Anello di Bardoney è un trekking con un livello di difficoltà E – Escursionistico. Presenta una prima parte piuttosto ripida che conduce in alto fuori dai boschi di larici. Prosegue su un sentiero prima roccioso poi in terra battuta che giunge al lago di Loïe. Da qui comincia la lenta discesa verso l’Alpe di Bardoney con successivo arrivo alle cascate di Lillaz.

Escursione sul Lago di Loie da Lillaz

Attraversiamo a piedi il borgo di Lillaz, una frazione di Cogne. Il paese è sovrastato da una miriade di pareti montuose lussureggianti. Queste la circondano tutt’intorno, che nel contrasto con le tipiche casupole del luogo, danno vita ad un quadro pittoresco.

Il primo tratto di giornata attraversa un ponte sul torrente. Un corso d’acqua che proviene dal vallone di Urtier, da cui prende il nome.

Seguendo le indicazioni, procediamo verso le cascate di Lillaz fino ad un primo bivio. Da qui è possibile procedere avanti per raggiungere direttamente le cascate. Oppure, un sentiero a sinistra segnala l’inizio per l’anello di Bardoney.

Con l’intenzione di percorrere l’itinerario completo per l’Alpe di Bardoney, ci inerpichiamo per la ripida salita, segnavia 13, che conduce sul lago di Loie.

Qui è dove il trekking comincia davvero a prendere la sua vera forma. In men che non si dica, infatti, siamo circondati da una fitta e lussureggiante flora alpina. Un bosco di larici e pini ci avvolge e ci accompagna per oltre due ore di cammino.

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Arrivo a lago di Loïe

Il sentiero del Bardoney è ben segnato e durante la settimana non sembra essere troppo affollato. Per lunghi momenti affrontiamo il trekking con un piacevole silenzio, accompagnati solo da una quiete disarmante che travolge e stupisce.

L’escursione da Lillaz è tutta in salita e prosegue costante con pendenze importanti fino al lago di Loïe. Il sentiero si divincola tra la flora sotto forma di innumerevoli tornanti che si ripetono senza fine.

Per due ore circa camminiamo, seguendo il nostro ritmo. In montagna bisogna saper ascoltare il proprio corpo. Conoscere i propri limiti è la via migliore per affrontare le escursioni.

Superati i 2.000 metri, lo scenario muta. La vegetazione si dirada e cede il posto a rocce e a piante di altura. Lasciando il bosco alle nostre spalle, ecco una spianata che conduce su rocce immense. Massi che a occhio sembra appartenessero alle imponenti pareti rocciose circostanti.

Procediamo sulle rocce e imbocchiamo un sentiero in terra battuta che costeggia pochi alberi circoscritti in quell’unica area. Infine, un ultimo zig zag conduce nei pressi di un rigagnolo. Ed è qui, nascosto tra due verdi pareti, che sorge il suggestivo lago di Loie.

In circa due ore e mezza di trekking, raggiungiamo la meta designata. A quell’altitudine il vento soffia insistente e dobbiamo subito coprirci. Il passaggio dal caldo umido estivo del bosco è impressionate.

Il panorama è mozzafiato. Il lago di Loïe risplende di un verde smeraldo ogni qual volta un raggio di sole riesce a filtrare tra le nubi. Dall’altro lato, immortaliamo la vallata di Cogne e il vallone di Urtier come in una cartolina senza tempo.

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L’anello spezzato, il rientro a Lillaz

Giunti a quasi 2.400 metri, cominciamo a intuire i primi capricci del meteo. Per evitare di incappare in qualche tempesta estiva improvvisa, optiamo per accorciare il giro.

Decidiamo quindi di non proseguire, seppure il tragitto fosse più facile, per tornare per la stessa via da cui eravamo saliti. In pratica, per completare l’anello di Bardoney, bisogna costeggiare il lago di Loie per poi cominciare la discesa verso l’Alpe di Bardoney. Il percorso procede più lineare ed è tanto agevole.

Impensieriti dall’improvvisa incursione di nubi minacciose, per non rischiare, ripercorriamo lo stesso sentiero a ritroso. Infatti, anche se più impegnativo, il sentiero n°13 è più veloce.

Pertanto, dopo aver ammirato e apprezzato appieno quel mondo incredibile situato a oltre 2.300 metri, ripartiamo. Questa volta in direzione opposta: verso le cascate di Lillaz.

Le cascate di lillaz nel Gran Paradiso

Seppur ripido, radici, rocce, gradini artificiali e terra battuta rendono la discesa piuttosto agevole. In meno di un’ora e mezza copriamo l’intera distanza che intercorre tra il lago di Loie e le cascate di Lillaz.

Infine, scendendo per il sentiero, cominciamo a scorgere la cascata tra la vegetazione. Il frastuono dell’acqua riecheggia incontrastato e dona ancor più fascino ad un luogo già magico di suo.

Giungiamo ai piedi delle cascate di Lillaz dopo circa 5 ore di escursione. Qui approfittiamo della location naturalistica per mandare giù un boccone con una vista da sogno. Seduti su delle rocce, piedi penzoloni, contempliamo con stupore lo splendore delle cascate. In pace, restiamo seduti per tutto il tempo di cui avevamo bisogno.

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In fin dei conti, abbiamo affrontato un trekking faticoso. Le pendenze, piuttosto importanti, raggiungono un dislivello positivo di 729 metri. E ora vale la pena ammirare la bellezza di questo posto per imprimere questa nuova avventura per sempre nella nostra mente. Inoltre, ci attende già la prossima escursione in una nuova valle del Gran Paradiso: la Val di Rhemes.

Val Veny e Val Ferret: al cospetto del Monte Bianco

Le valli della Val d’Aosta, Val Veny e Val Ferret, accolgono le pendici del Monte Bianco, la regina delle Alpi

Autore: Raianaraya Nature Experience

La Val d’Aosta è un angolo della penisola italiana che ancora conserva antiche tradizioni e scenari incontaminati sorprendenti. Il Monte Bianco è di sicuro il fiore all’occhiello per gli appassionati di escursionismo e d’alpinismo, ma questa zona d’Italia abbonda anche di parchi nazionali e riserve naturali che delineano i contorni e le caratteristiche di questa remota e selvaggia regione.

La nostra attenzione da tempo si era posata su questa terra e dopo alcuni periodi di riflessione, finalmente ci siamo lanciati in questa nuova avventura tutta italiana. In particolar modo, anche dovuto ai disagi del Covid-19 e della situazione internazionale, abbiamo optato per un viaggio on the road alla scoperta delle vette delle nostre Alpi senza oltrepassare il confine nazionale.

Il nostro viaggio è iniziato da Venezia a bordo di un van a noleggio. La prima meta e anche la più distante di tutto l’itinerario prevedeva per l’appunto il Monte Bianco con le sue illustri vallate nel versante italiano nei pressi della nota località sciistica di Courmayeur: la Val Veny e la Val Ferret. Queste ultime sono delle valli incantate che racchiudono il grande massiccio montuoso di cui fa parte il Re delle Alpi, sua maestà Mont Blanc. Ed è proprio dalla Val Veny che la nostra avventura ha avuto inizio.

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Monte Bianco: la prigione dei demoni

Il Monte Bianco è avvolto da uno spesso velo di misticismo e molte sono le storie e i miti che si celano dietro la sua vera essenza. Una leggenda vuole che una parte dello spesso ghiacciaio della montagna sia sede di una prigione eterna di demoni. Il susseguirsi di magie, esorcismi e maledizioni aveva lentamente infestato e confinato spiriti maligni della Val d’Aosta. Si narra che il curato di Cogne con i suoi esorcismi riuscì ad allontanare e segregare i manteillon, ossia antichi folletti maligni che affollavano la montagna.

Uno stregone che giungeva dall’Oriente invece catturò tutte le creature maligne della Val d’Aosta e le rinchiuse nell’immensa torre del Dente del Gigante del Monte Bianco. Inoltre, un giovane frate dall’anima beata bandì tra i ghiacci le nefaste entità che danneggiavano la regione. Mentre, uno sconosciuto viandante rinchiuse tutti i demoni all’interno del ghiacciaio.

Quest’ultimo fu cordialmente accolto dagli abitanti del luogo che vivevano nei pressi del massiccio. Il vagabondo decise di intervenire attraverso le forze divine in modo da liberare la popolazione locale dalle entità maligne. Ecco che, tutto d’un tratto, candidi fiocchi di neve incominciarono ad imbiancare la montagna infestata, ricoprendola di una spessa coltre che segregò e intrappolò per sempre gli spiriti maligni. Questo fu il momento in cui il monte prese l’odierno e luminoso nome: Monte Bianco.

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Val Veny e i ghiacciai del Monte Bianco

Siamo giunti a Courmayeur in pieno pomeriggio e, purtroppo, come per buona parte del nostro viaggio, il meteo non è mai stato dalle nostre. Una timida ma persistente pioggerellina continuava a cadere sugli spioventi tetti in legno e tra le caratteristiche viuzze del borgo montano. Io ed Eva, la mia compagna d’avventure, avevamo appena affrontato un lungo viaggio di circa cinque ore e non vedevamo l’ora di addentare qualcosa e perlustrare la prima valle sulla lista: la Val Veny.

La Val Veny si estende nel cuore del massiccio del Monte Bianco e al suo interno custodisce paesaggi unici e imperdibili. Da Entrèves fino al Col de La Seigne a confine con la Francia gli scenari sono diversificati e selvaggi. inoltre, sono diversi i trekking che si possono intraprendere per avere una buona panoramica sulla vetta regina delle Alpi. Uno tra questi è la balconata sul Monte Bianco, una vera e propria escursione con vedute mozzafiato sui ghiacciai della Brenva e del Miage, ma anche le Aiguilles des Glaciers e l’Aguille Noire de Peuterey.

Prima che la notte portasse via con sé le ultime luci, abbiamo voluto esplorare le rive del fiume Dora Baltea, un importante affluente del Po che nasce tra la Val Veny e la Val Ferret dai ghiacciai circostanti. L’acqua cristallina rivelava ogni pietra del fondale e sulla destra orografica del fiume si potevano ammirare numerosi omini, ovvero massi di diverse dimensioni che progressivamente si riducono verso l’alto. Anche noi abbiamo colto l’occasione per erigerne uno prima di assaporare una forte grappa locale.

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Allerta Meteo, dalla Val Veny alla Val Ferret

La notte avevamo provato a sostare in un parcheggio da cui partono alcuni sentierini lungo il fiume Dora Baltea. Purtroppo, abbiamo scoperto per via delle pattuglie notturne che è severamente vietato parcheggiare l’auto in Val Veny dalle 23:00 fino alle 08:00 della mattina. Inoltre, durante l’inverno, questa valle è completamente chiusa e si può raggiungere soltanto in cabinovia. Pertanto, siamo saltati di nuovo a bordo del nostro van e abbiamo raggiunto un parcheggio nei pressi di Courmayeur dove si poteva ammirare un enorme ghiacciaio e anche uno spesso strato di permafrost.

Il 4 luglio, il freddo invernale e i quattro gradi ci hanno preso alla sprovvista e, di fatti, la nostra notte non è andata come previsto. Tuttavia, sopravvissuti alle tenebre, al mattino abbiamo tentato di raggiungere la balconata del Monte Bianco, ma a causa della stanchezza e delle poche ore di sonno, infine, abbiamo optato per la Val Ferret e un sentiero più semplice, ma che fosse al contempo panoramico.

Ancora leggermente infreddoliti abbiamo percorso tutta la Val Veny a ritroso, osservando i diversi ghiacciai della valle e gli strati di permafrost che caratterizzano le parti in quota del massiccio montuoso. Una volta usciti, abbiamo cominciato a seguire le indicazioni per la Val Ferret. Ed è qui che si è presentata una nuova avventura e un’escursione con uno sguardo a 180° sull’intera valle.

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Val Ferret e il mancato Rifugio Elena

Dopo una breve esperienza in Val Veny, cominciava per noi un nuovo momento nella splendida Val Ferret. Abbiamo percorso in van l’intera via che conduceva a Lavachey e per circa mezz’ora abbiamo costeggiato le remote lande selvagge della valle. I catastrofici segni delle frane e delle valanghe passate erano evidenti in ogni angolo. Massi di qualsiasi forma e dimensione hanno dato vita ad un vero e proprio campo minato che durante le stagioni invernali mutano con la forte azione del tempo.

Contrariamente alla Val Veny, la Val Ferret cammina lungo la destra orografica del Monte Bianco mostrando altri ghiacciai perenni del massiccio. L’unica strada angusta e a tratti dissestata conduce lentamente attraverso la valle dove vegetazione e fauna sono i veri padroni. Una volta raggiunto il parcheggio di Lavachey, imbocchiamo il sentiero del Rifugio Elena. Il rifugio si trova in fondo alla Val Ferret, a quota 2061 m s.l.m., di fronte al millenario ghiaccio di Pré de Bard.

Abbiamo iniziato la nostra escursione intorno alle 9 e 30 della mattina e il meteo, come già accennato all’inizio, non ci ha dato tregua se non per alcuni brevi momenti. Fortunatamente, durante le due ore di trekking non siamo stati colti da improvvisi temporali. Dopo circa un’ora e mezza di cammino, ecco che incontriamo il nostro primo ostacolo: un ripido nevaio da oltrepassare.

Con calma e sangue freddo sfidiamo il temibile avversario concludendo la prima battaglia. Tuttavia, dopo altri quindici minuti di cammino ci imbattiamo in altre due nevaie. A questo punto un po’ spaventati e leggermente interdetti, abbiamo deciso di evitare e ritornare per la stessa strada da cui eravamo giunti. Pertanto, abbiamo riaffrontato il nevaio a tentoni e finalmente siamo giunti al ristorante in fondo alla Val Ferret da cui eravamo partiti dove abbiamo pranzato con polenta, fontina e salsicce Valdostane.

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Il pomeriggio abbiamo lasciato la valle per raggiungere il Parco Nazionale del Gran Paradiso, un luogo selvaggio e meraviglioso tutto da scoprire che racconteremo nel prossimo articolo.
Raianaraya Nature Experience

Blue Mountains on the Road

Viaggio on the road nella meravigliosa terra dei canguri: un itinerario lungo più di 10.000 chilometri con destinazione Townsville. Questa tappa ripercorre le orme delle leggendarie Three Sisters nelle Blue Mountains in Australia, a pochi chilometri dalla magnifica città di Sydney.

Autore: Raianaraya Nature Experience

Prima di raggiungere il New South Wales, anche noto come il Nuovo Galles del Sud, avevamo già percorso circa 6.000 chilometri on the road, viaggiando e dormendo in auto, nella nostra amata Leonidas. Avevamo accantonato nuovamente comfort e sicurezze per qualcosa di più grande e reale come la libertà e la vita.

Attraversato il deserto e le lande desolate tra il Western e il South Australia, eravamo scampati ad un incubo che si era materializzato nei pressi del confine ad Eucla. Ma adesso avevamo raggiunto nuove terre, precisamente, le meravigliose Blue Mountains, una catena montuosa poco distante dalla Sydney region che vale assolutamente la pena vedere.

Blue Mountains National Park

Le Blue Mountains sono uno dei parchi naturalistici più verdi del New South Wales dove foreste di eucalipti e una flora autoctona affascinante si inoltrano verso l’orizzonte a perdita d’occhio. Ogni giorno in questa riserva naturale milioni di eucalipti sprigionano nell’aria molecole di oli essenziali che vagando nell’atmosfera riflettono la luce del sole.

Ecco quindi che il paesaggio si tinge di blu e come un velo, filtra l’intera natura circostante. Proprio a causa di questo evento naturale la conformazione rocciosa prende il suo nome, rievocando questo scenario unico che cambia la percezione visiva del luogo.

Il tutto è contornato da guglie e rocce frastagliate che si elevano verso il cielo dando vita a delle vallate mozzafiato. I simboli del parco nazionale delle Blue Mountains sono le monumentali Three Sisters, ossia tre speroni rocciosi uno accanto all’altro che dominano la scena. Inoltre, di notte, con l’ausilio delle luci artificiali, le tre conformazioni si illuminano e si colorano di arancio.

Blue Mountains National Park

La leggenda delle Tre Sorelle

Una leggenda aborigena narra di tre sorelle, Meehni, Wimlah e Gunnedoo che vivevano nella valle Jamison e facevano parte della Tribù Katoomba. Queste bellissime giovani donne si erano innamorate di tre fratelli della Tribù dei Nepean. Tuttavia, la legge tribale vietava il matrimonio tra diversi clan. I fratelli non accettarono di buon grado queste leggi, così decisero di rapire le tre sorelle scatenando una grande guerra tra tribù.

Ora che le sorelle erano seriamente in pericolo, uno stregone della tribù dei Katoomba decise di trasformare le tre sorelle in pietra e proteggerle da qualsiasi aggressione. Quando la battaglia terminò e lo stregone tentò di riportare in vita le giovani donne, egli stesso fu ucciso. Pertanto, essendo l’unico in grado di compiere la magia per riportare le sorelle al loro stato di bellezza originario, le donne rimasero nella loro magnifica formazione rocciosa come monito di questa battaglia per le generazioni a venire.

Parco Nazionale Blue Mountains, Australia

La partenza: Sydney – Blue Mountains on the road

È il momento della partenza, avevamo dormito in auto come da consuetudine negli ultimi tempi e ci preparavamo per raggiungere la nuova meta, le Blue Mountains. Ci trovavamo in un’area sulla costa di Sydney, nei pressi di Coogee Beach. Dopo una veloce colazione con pane e nutella ci siamo lanciati in questa nuova avventura all’insegna dell’esplorazione.

Questa volta, spediti ma non troppo sulla Western motorway, la M4, ci dirigevamo verso le montagne per tuffarci per la prima volta in Australia in un’area con una latitudine così elevata. Pur essendo di modeste dimensioni, circa mille metri sul livello del mare, questo parco nazionale è riuscito a catturarci con le sue vedute uniche e le sue escursioni selvagge.

Il Balcone delle Three Sisters

Parcheggiata l’auto, ci siamo diretti verso il balcone panoramico che affaccia sull’intera vallata delle Three Sisters. Dinanzi a noi si apriva un manto verde eterogeneo che seguiva le grandi chiome degli eucalipti e delle specie autoctone che torreggiavano in quella valle splendente. Il sole illuminava ogni angolo della foresta e solo le rarefatte nuvole, a tratti creavano come una macchia scura in alcuni punti tra la vegetazione.

Il primo impatto con le Blue Mountains ci aveva entusiasmati. Abbiamo subito deciso di incamminarci sul sentiero sottostante e seguire il primo percorso nella natura della giornata. Attraversando la foresta, uno stretto corso d’acqua attraversava la nostra via rendendo il tutto molto affascinante. Ci siamo addentrati tra le acacie e gli eucalipti che costellavano il parco ammaliati dal miracolo di madre natura.

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Trekking into the wild

Finalmente, dopo oltre un’ora e mezza di cammino, ecco un piccolo sentiero che si snodava sul fianco di un’enorme parete rocciosa. Un percorso attrezzato aggirava una parte della Blue Mountains sospeso nel vuoto. Un camminamento di metallo da capogiro dove non c’era spazio per chi soffriva di vertigini.

Siamo avanzati in fila indiana fino quasi al termine. Alla fine del sentiero si scendeva tra gli eucalipti e si procedeva per la vegetazione. Una volta immortalati quei magici istanti, abbiamo ripreso la strada del ritorno per cercare altre escursioni da fare senza comunque allontanarci troppo. Anche perché per la sera avevamo un forte desiderio di ammirare un certo panorama nelle vicinanze, ma non era questo il momento.

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L’ultima escursione di giornata

A pochi chilometri dalle Three Sisters, abbiamo trovato un sentiero nascosto che si addentrava nella vegetazione più selvaggia. Percorrendo questa via nella foresta ci siamo ritrovati in un vero e proprio trekking piuttosto complicato. Durante la prima ora di cammino avevamo proseguito agevolmente, nonostante alcuni tratti più difficili, ma raggiunte le tre del pomeriggio, abbiamo incontrato la parte più impegnativa e tecnica.

Il sole di gennaio, ossia estate piena nell’emisfero australe, era al culmine del suo bagliore e il caldo sprigionato nell’umida boscaglia era estenuante. Scendevamo con molta attenzione, tentennando ad ogni passo e sperando di non scivolare in quelle sorte di arrampicate che si paravano davanti. Eravamo sfiniti e la fame diventava insistente. Così, mentre terminavamo una discesa con una percentuale notevole, abbiamo deciso di interrompere la nostra spedizione e ritornare al principio per rifocillarci e riposarci prima del tramonto.

Blue mountains australia

Una finestra sulle Blue Mountains: il Tramonto

Nel pomeriggio, dopo aver mangiato e aver ritrovato le energie, ci siamo messi in moto per cercare un luogo attrezzato dove poterci accampare e finalmente anche organizzare il nostro usuale banchetto serale. Abbiamo vagato per le Blue Mountains per un’ora circa prima di scorgere quell’angolo di paradiso: un piccolo parco molto curato attrezzato con barbecue elettrici e tavoli. Immediatamente ci siamo fiondati sul posto desiderato e abbiamo cominciato a preparare tutto il necessario per rientrare nelle tempistiche da noi pianificate.

Carne alla brace, cenare durante un viaggio on the road in questi luoghi è proprio la pace dei sensi. Non vorresti nient’altro che questo. Ecco che stava per giungere l’ora, così ci siamo catapultati nell’auto e ci siamo lanciati giù per la carreggiata fino a raggiungere il posto designato. Finalmente, eravamo al cospetto delle Three Sisters mentre il sole cominciava a nascondersi dietro le montagne all’orizzonte. Il tramonto sulle Blue Mountains è uno degli spettacoli della natura più emozionanti di cui si possa fare esperienza.

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Le calde e variopinte colorazioni che annunciavano la notte risplendevano di un rosa e un arancio intenso. Ogni centimetro della valle avanti a noi era come accesa di un fuoco ardente. L’intero panorama sembrava essere stato dipinto da un grande artista d’altri tempi e noi avevamo la fortuna di poter assistere a questo capolavoro senza pagare il prezzo del biglietto. Ormai il sole stava per congedarsi del tutto quando l’illuminazione artificiale ha riportato in vita quelle giovani sorelle addormentate da secoli in questo immenso luogo di pace e bellezza.

Vieni a vivere l’avventura in Australia con noi!
Raianaraya Nature Experience

Itinerario dei Boschi di Mestre

Mestre, oltre ad essere a pochi passi dalla meravigliosa città di Venezia, è anche disseminata di diversi boschi e grandi parchi dove è possibile tuffarsi nella natura incontaminata. Ecco l’itinerario dei Boschi di Mestre che abbiamo intrapreso nella nostra ultima avventura nella natura.

Autore: Raianaraya Nature Experience

Molti sono i progetti avviati dal comune di Venezia Mestre per la salvaguardia e la protezione delle aree verdi, tra questi, anche quello di ricreare aree boschive nella zona meglio nota come Bosco di Mestre. Iniziative, campagne di donazioni e pianificazioni dirette hanno portato negli ultimi anni ad una massiccia forestazione urbana che mira ad ottenere una città sempre più verde, riportando in vita quello che una volta era il vecchio Bosco di Mestre. A questo punto, era il momento di verificare con i nostri occhi questi boschi di Mestre e lanciarci finalmente in questa nuova avventura.

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Stazione di Venezia Mestre, punto di partenza

Era da tempo che avevamo in mente di percorrere la ciclabile che dal Parco San Giuliano, un grande parco sulle sponde della laguna veneta, raggiunge l’aeroporto Marco Polo di Venezia. Negli ultimi tempi, la voglia di esplorare il territorio circostante continuava a crescere. Al contempo, il desiderio di scoprire più nel profondo gli scenari naturalistici che la città di Mestre aveva da offrire era irrefrenabile. Così, lo scorso 2 giugno, abbiamo preso le bici e ci siamo lanciati in questa nuova esperienza.

Il piano iniziale era quello di costeggiare la laguna di Venezia fino all’aeroporto Marco Polo, ma successivamente, avendo scoperto che nei dintorni si potevano raggiungere dei boschi, abbiamo optato per l’aumentare i chilometri del nostro itinerario. Al mattino ci siamo recati in bici fino alla stazione FFSS Venezia Mestre attraversando il sottopassaggio che collega Mestre con la città di Marghera. Questo è il punto da cui è davvero cominciato tutto.

A pochi metri dalla Stazione di Venezia Mestre ha inizio una pista ciclabile che porta fino in centro storico. Ma come raggiungere Parco San Giuliano da lì? Vista la nostra propensione a voler pedalare su dei sentieri o percorsi ciclabili, abbiamo scelto di arrivare al parco seguendo la ciclabile fino a Piazza Barche. Dopodiché, attraversando il capolinea dei tram, abbiamo imboccato il lungo Viale San Marco.

Quest’ultimo è attrezzato con un percorso pedo ciclabile che connette il centro città con il San Giuliano. In circa dieci minuti abbiamo raggiunto il parco mentre il sole andava a guadagnare lentamente la posizione più elevata nel cielo. Nonostante fosse una serena e soleggiata giornata di giugno, un’aria fresca e un delicato vento costante ci hanno permesso di godere appieno dell’escursione in bici senza patire in nessuna occasione il caldo.

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Il Sentiero Ciclabile: dal Parco San Giuliano all’aeroporto Marco Polo di Venezia

Giunti al parco San Giuliano, ci siamo diretti verso il sentiero su sterrato che dal parco conduce all’aeroporto in località Tessera. Questo percorso è molto suggestivo e spesso abbiamo avuto la possibilità di scorgere in lontananza la magnifica Venezia. Costeggiando l’argine del canale e la meravigliosa laguna, abbiamo percorso il primo tratto molto agevolmente. In alcuni momenti, la vegetazione più fitta sembrava avvolgerci per poi liberarci in un nuovo scenario.

Al primo bivio, abbiamo optato per raggiungere Tessera dal lato sinistro dell’argine, attraversando il canale sul ponte di legno. Da questo momento, abbiamo avuto non poche difficoltà, soprattutto in alcuni tratti del sentiero, per via della larghezza dello stesso. Infatti, per un bel pezzo, il sentiero è stretto e una striscia di terra battuta della larghezza di una ruota da mountain bike è tutto ciò che emerge tra l’erba curata circostante.

Nonostante un po’ di instabilità, il percorso era magnifico e in alcuni momenti ci ha catapultato in piccole aree boschive attrezzate dove chi voleva, poteva sedersi e ammirare la laguna nel silenzio della natura. Infine, poco distante, un aereo disegnava l’ultima linea prima di toccare terra. Eccoci giunti a Tessera, ma più precisamente, a Forte Bazzera.

Questo è il tratto conclusivo della ciclabile che dal parco San Giuliano raggiunge l’aeroporto di Tessera. Da questo momento, abbiamo iniziato a pedalare su una strada asfaltata per niente trafficata. In circa cinque minuti abbiamo raggiunto la rotonda che si allaccia alla strada statale SS14 e abbiamo proseguito dritto per via Triestina dove finalmente è cominciato il vero e proprio tour tra le zone rurali e il Bosco di Mestre.

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Come avventurarsi nei Boschi di Mestre

La sera prima dell’escursione in bici avevamo consultato alcuni siti web per abbozzare un piano d’azione ipotetico. Potremmo dire che avevamo raccolto quelle informazioni minime per poter affrontare al meglio questa avventura nella natura. Perciò, durante la marcia, abbiamo controllato di rado la mappa, inoltre, quando usciamo all’insegna dell’esplorazione, non vogliamo mai davvero conoscere la direzione e talvolta, perché no, ci perdiamo per poi ritrovarci in un luogo mai visto prima e che altrimenti non avremmo mai potuto raggiungere.

Come raggiungere quindi il bosco di Mestre? Innanzitutto, abbiamo seguito la ciclabile sul lato sinistro della carreggiata di via Triestina per poi svoltare a destra in via Pezzana. Quest’ultima è una strada sterrata piuttosto ampia che conduce ad un centro di accoglienza. Noi l’abbiamo percorsa fino al piccolo ponte che oltrepassa uno stretto canale.

Proprio nei pressi di questo modesto corso d’acqua, ha origine uno strettissimo sentiero ciclabile che ricorda vagamente un tratto del precedente percorso che costeggia la laguna veneta all’altezza di Campalto. Abbiamo continuato a pedalare per circa venti minuti, oltrepassando campi in fiore disseminati di papaveri, alberi da frutto e piccole aree con una fitta vegetazione. D’ improvviso, anche un piccolo leprotto intento a cercare cibo ha fatto capolino dai vicini cespugli.

Usciti dal sentiero, abbiamo imboccato un altro percorso ciclabile dal lato opposto del canale che conduce verso il Bosco di Mestre, precisamente, al Bosco di Zaher. Finalmente, dopo circa un’ora e mezza di pedalata, abbiamo raggiunto la tanto desiderata meta. Per la prima volta siamo entrati in quest’area boschiva mestrina che mai avevamo immaginato potesse essere così curata e suggestiva.

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Bosco di Franca e Bosco Ottolenghi

Una volta circondati dalla verde flora boschiva, siamo rimasti estasiati alla vista di cotanta bellezza. Più che altro, nessuno, neanche localmente, ci aveva mai accennato di questa zona della città, pertanto, non avevamo alcuna idea di cosa aspettarci. Abbiamo attraversato l’intero bosco di Zaher fino a raggiungere il Bosco di Franca. Il percorso naturalistico è incantevole e in alcuni punti sembra di essere realmente su una montagna ad alta quota.

Il nostro tour in bici è proseguito a lungo esplorando ogni sentiero che si divincolava tra la vegetazione. Abbiamo vagato nel bosco ammaliati e un po’ increduli. Era difficile credere che non avessimo mai sentito parlare del Bosco di Mestre. Eppure, dopo molto tempo, eravamo lì, nell’area più verde della città. Percorrendo le viuzze del bosco, c’erano persone che stendevano un telo e si preparavano per un picnic, ciclisti che approfittavano della bella giornata per un po’ di sano sport e molti altri che cercavano di rilassarsi nella silenziosa natura circostante.  

I sentieri proseguono come zigzagando tra la vegetazione e, in alcuni punti, si intrecciano per condurre in una direzione precisa. La parte che più si avvicina ad una vera e propria selva è il Bosco Ottolenghi. Al suo interno, per quasi tutto il tragitto, siamo rimasti incantati da come gli alberi, le foglie e gli arbusti avvolgessero l’intero scenario, talvolta perfino oscurando la via che stavamo percorrendo.

Infine, ammaliati dall’incredibile regalo di questa esperienza nei boschi di Mestre, abbiamo deciso di raggiungere il Parco Bissuola, dove questa volta abbiamo steso noi un telo sul prato e abbiamo fatto un picnic all’ombra di un ciliegio. Finalmente, dopo alcune settimane di stop, abbiamo potuto trascorrere una giornata all’insegna dell’esplorazione, del divertimento e in piena sintonia con la natura.

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Itinerario dei Boschi di Mestre

Vivi con noi l’esperienza della Natura.
Raianaraya Nature Experience

Il Sentiero del Brenta, un percorso nel bel mezzo della Natura

A pochi passi dal Ponte degli Alpini di Bassano del Grappa, ha origine un emozionante sentiero naturalistico immerso nel silenzio e nella pace più assoluta: Il Sentiero del Brenta. Un percorso affascinante che costeggia la riva del Brenta fino al rustico paesino di Valstagna.

Autore: Raianaraya Nature Experience

In Italia sono molte le località naturalistiche o i parchi nazionali in cui poter apprezzare appieno i capolavori di madre natura. Con la presenza delle maestose Alpi, degli Appennini e con una varietà paesaggistica unica, lo stivale riesce a soddisfare le esigenze di chiunque. Infatti, nella provincia di Vicenza, a pochi passi dal centro storico di Bassano del Grappa, nasce un sentiero naturalistico ammaliante che aliena, nel senso positivo della parola, il viandante o il ciclista che lo percorre: Il Sentiero del Brenta.

Questo itinerario è piuttosto semplice e si addentra nella vegetazione allontanandosi dal rumore e il vociare della città. Infatti, è una valida alternativa per chi come noi, in una giornata libera da impegni lavorativi, vuole discostarsi totalmente dalla quotidianità e respirare l’aria fresca e frizzante primaverile. In questi luoghi chiunque può assaporare l’ebrezza di essere circondato da quegli alberi così rigogliosi che proprio in questo periodo sfoggiano armoniosi adornamenti di un verde vivace e ipnotizzante.

Sentiero del Brenta, Bassano del Grappa

Bassano del Grappa, tra storia e natura

Il Sentiero del Brenta ha origine nei pressi di una città storica meravigliosa situata nel cuore del Veneto. Rinomata per i suoi distillati come il Poli e il Nardini, e per i suoi prodotti tipici locali, Bassano del Grappa è una località suggestiva e molto animata dove storia, natura e divertimento coesistono pacificamente. Dal primo instante in cui abbiamo messo piede nella città, io e la mia compagna abbiamo percepito quella magnifica sensazione di tranquillità e di serenità tra gli abitanti. Infatti, è una delle mete che più amiamo dove cerchiamo di recarci ogni volta che è possibile.

Circa una settimana fa, finalmente, siamo riusciti a ritagliare un po’ del nostro tempo per percorrere un tratto del suggestivo Sentiero del Brenta. Dalla stazione ferroviaria di Venezia Mestre, abbiamo preso il treno regionale per Bassano del Grappa e in poco più di un’ora siamo giunti nella ridente cittadina. Per quanto mi riguarda, questa città circondata dalle montagne ed immersa completamente nel verde mi ha sempre affascinato molto provocando in me sempre un mix di sensazioni positive.

Il Sentiero del Brenta

Attraversato il finalmente ristrutturato e inaugurato Ponte degli Alpini, abbiamo optato per il sentiero sulla sponda Ovest del Brenta. I primi duecento metri abbiamo costeggiato il fiume su strada asfaltata. Poco dopo, inizia il vero e proprio Sentiero del Brenta. In quella direzione, seguendo il corso d’acqua verso Nord, ci siamo addentrati nella vegetazione lasciandoci completamente avvolgere da quell’atmosfera di pace.

Essendo una domenica mattina, il via vai di famiglie e sportivi era frenetico, ma pur sempre mantenendo il dovuto ordine e rispetto per quel luogo di quiete e serenità. Il sole, seppur leggermente coperto, di tanto in tanto riusciva a fare capolino nello sfrenato susseguirsi delle nuvole verso l’orizzonte. Nel frattempo, io ed Eva eravamo al settimo cielo per l’avventura che avevamo appena intrapreso.

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Direzione Solagna

Passeggiando su un terreno che variava dallo sterrato a tratti in cemento, abbiamo cercato piccoli segni o viuzze nella vegetazione per poterci addentrare ancor di più nella boscaglia. Ad un certo punto, prima di raggiungere il paesino di Campese, ci siamo infilati tra gli alberi e gli arbusti fino a raggiungere un emissario del Brenta. Un piccolo ponticello, lo scrosciare dell’acqua, il Monte Grappa sullo sfondo e la vista del fiume che scendeva solenne verso valle erano uno spettacolo della natura.

Siamo rimasti lì per qualche minuto ad osservare quello scenario meraviglioso, dopodiché, abbiamo ripreso la strada fino a raggiungere la diga e lo stretto ponte che attraversa il fiume Brenta. Un attraversamento pedonale di metallo che offre una panoramica mozzafiato sul corso d’acqua e le montagne circostanti. Abbiamo immortalato qualche instante prima di lasciarlo scorrere alle nostre spalle e, dopo una piccola serpentina nei pressi della diga, siamo giunti al termine di questo primo tratto.

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Il Ritorno sulla Sponda opposta

Attraversata la diga, a causa dell’assenza di una segnaletica, abbiamo perso la via finendo su una strada asfaltata anche piuttosto trafficata. Ad ogni modo, camminando senza perdere le tracce del fiume, abbiamo ritrovato il cartello che indicava “Sentiero del Brenta”. Da quel momento, dopo un breve tratto su una piccola via di campagna, finalmente abbiamo rimboccato il nostro sentiero. Era circa un’ora e mezza che camminavamo, ma avevamo ancora la stessa voglia di esplorare. Inoltre, l’aria fresca e il tempo favorevole permettevano di godere appieno della facile escursione sulla riva.

Ritornando verso Sud, questa volta costeggiando il Brenta sulla riva opposta, abbiamo passeggiato in totale tranquillità. Dopo un paio di chilometri, prima che si riuscisse a vedere il Ponte Vecchio, ho chiesto alla mia compagna di sedere su delle rocce per rilassarci un po’. Caso volle che mentre eravamo in contemplazione della natura, una piccola sagoma sfilò dietro una roccia. Inizialmente, pensando potesse essere stata una foglia o qualcosa di poca importanza, non gli diedi molta retta. Successivamente, notai che anche Eva era rimasta interdetta dalla faccenda. Al che, guardandoci negli occhi, intuimmo che ci fosse davvero qualcosa lì dietro. Non dovemmo aspettare molto prima che una piccola donnola si affacciasse tra le rocce e con il piccolo musetto ci salutasse prima di riprendere la sua marcia verso la sua tana.

Dopo questa inaspettata visita, abbiamo ripreso la nostra strada attraverso il suggestivo sentiero del Brenta. Infine, abbiamo raggiunto nuovamente Bassano del Grappa dove abbiamo preferito pranzare in uno dei tanti locali del centro storico. Purtroppo, a causa di un errore, non abbiamo potuto affrontare l’intero percorso naturalistico, ma nei prossimi tempi saremo di nuovo lì per portare a termine l’obiettivo cominciato.
Raianaraya Nature Experience

Il Vettore delle Emozioni

Al confine tra Abruzzo, Umbria e Marche, si innalza la meravigliosa catena dei Sibillini. In questo articolo vi racconteremo di una incredibile escursione ad anello sul Monte Vettore, la cima più alta del gruppo montuoso.

Autore: Danilo D’Onofrio

Dal balcone di casa mia, osservando verso nord, si scorge in primo piano il Monte Camicia e tutta la dorsale che degrada verso Popoli, dietro e alla sua destra buona parte della Laga, poi una zona pedemontana che scompare alla vista ma che conosco molto bene: la Valle Castellana, che separa ed unisce la Catena della Laga ai Monti Gemelli. Quella finestra tra Laga e Gemelli rappresentata da Valle Castellana è un corridoio visivo che permette di vedere, nelle giornate migliori, ancora più lontano, la catena dei Sibillini e precisamente la cima più alta in primo piano, il Monte Vettore

È stato amore a prima vista…direi ai primi passi! 

In avanscoperta sui Monti Sibillini

La primissima volta ero da solo, circa 16 anni fa e desideravo compiere quel sentiero lungo e faticoso, con tanto dislivello, molto gettonato e altrettanto pittoresco: toccare la cima di Monte Vettore partendo da Foce di Montemonaco e percorrendo quindi tutta la valle, passando dal Lago di Pilato; un totale di circa 1500 metri di dislivello. Era luglio e c’erano ancora estese macchie di neve a testimonianza di un inverno ricco di perturbazioni nevose.

Dopo qualche anno vi tornai per scoprirla meglio, studiai i percorsi sulle guide, la morfologia del territorio ma anche quella parte che mi sta particolarmente a cuore e che riguarda l’aspetto culturale: sapere dei paesi e della gente, delle tradizioni e dei costumi. Infatti, il Gruppo dei Sibillini comprende diverse province e due regioni: Marche ed Umbria ed è separata dall’Abruzzo soltanto da una valle, quella del Tronto, che in quel punto è quasi un tutt’uno. Arquata del Tronto è chiamato infatti il paese dei due parchi: quello del Gran Sasso-Laga e quello dei Monti Sibillini.

Da quella prima esperienza, ogni volta che son tornato, da qualsiasi versante e in qualunque stagione, ho alimentato la voglia per ogni volta successiva. Sempre uno spettacolo: diversità paesaggistica, zone battute e altre deserte, la piana di Castelluccio, i numerosi borghi medioevali, le sorgenti del Nera, pastori e relative greggi che su questa montagna occupano ancora i pascoli sommitali, attività che sulla Majella è scomparsa da tempo.

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Alla ricerca di nuove escursioni

Ero così curioso ed interessato ai Sibillini che un anno, durante le mie ferie estive, decisi di trascorrervi una settimana con la mia famiglia. Ogni giorno un’escursione diversa ed è stata l’occasione propizia per farmi un quadro abbastanza completo di tutto il gruppo, in modo da localizzare ed imprimere nella mente quelle escursioni che avrebbero richiesto un maggior impegno, occasione ottima per tornare e tornare ancora.

Al tutto si è unita anche la conoscenza di gente meravigliosa. Caso ha voluto che conoscessi una coppia e che questo sodalizio durasse tutti questi anni. Stefania e Massimo ci hanno aperto la porta di casa e quella del loro cuore; lei appassionata e brava fotografa, lui guardiaparco attento e scrupoloso, sempre impegnato nel monitoraggio della fauna e nella tutela di quell’ambiente meraviglioso. Purtroppo, nel 2016 la loro zona in particolare è stata duramente colpita dal sisma, hanno perso le attività di B&B e tanto altro; ma piano piano si ricomincia!

Ad oggi posso dire di aver percorso un buon numero di sentieri e toccato quasi tutte le cime di questo stupendo gruppo montuoso; spero quanto prima di aggiungere qualche curva con gli sci, poiché i Sibillini offrono allo scialpinista una gran varietà di discese per tutte le difficoltà.

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Trekking sul Monte Vettore

Tra le tante escursioni effettuate in questo decennio, ne vorrei riportare una compiuta lo scorso anno, la più completa e tra le più lunghe compiute dal sottoscritto. Alle quattro di un mattino di luglio ero a Forca di Presta con un’amica, scendevo dall’auto e l’aria particolarmente fresca si scontrava col tepore dell’abitacolo.

Muoviamo i primi passi nell’oscurità con l’ausilio della lampada frontale. Il sentiero arranca subito, i muscoli ancora intorpiditi ne avvertono la pendenza, il respiro si accorda col tutto, le stelle ci guardano e i nostri occhi cominciano ad abituarsi a quella flebile luce. Spesso facciamo a meno della frontale per meglio gustare l’atmosfera e godere quel silenzio rotto soltanto dal nostro respiro e dal rumore dei sassi che lasciamo rotolare.

Ascoltiamo il sibilo del vento che più in alto imperversa abbastanza teso, almeno questa è la sensazione, e verso est il cielo inizia lentamente a schiarirsi, dal lato ancora coperto alla nostra vista dalla mole stessa del Vettore. L’idea che avevo era proprio quella di avviarci presto per poter meravigliarci dell’alba dalla cima del Vettore stesso o comunque dalla cresta sommitale.

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Quella sensazione di forte vento ci investì in tutta la sua realtà una volta arrivati a Forca delle Ciaule e al vicino rifugio Zilioli. Approfittammo delle sue mura esterne per ripararci mentre vestivamo qualcosa di più appropriato. Quel vento di tramontana mal si sposava con il calendario: era luglio e mai avrei pensato di dover vestire guanti, cappello e giacca a vento con cappuccio! Chi vive di queste passioni ne accetta ogni suo aspetto, compresi quelli più scomodi. L’aspetto positivo del tutto era che quel vento teso da nord spazzava ogni traccia di foschia e lo spettacolo sarebbe stato a dir poco grandioso.

Nei pressi del rifugio stazionava altra gente salita la sera prima o durante la notte proprio per assistere all’alba sul mare, tutti imbacuccati e visibilmente infreddoliti ma soddisfatti. Proseguimmo sul largo crinale che portava in cima. L’orizzonte assumeva mille tonalità e pian piano ci si abituava a quella condizione quasi invernale, distratti dallo spettacolo che ci si presentava.

L’enorme croce di vetta si stagliava sullo sfondo di un cielo sempre più azzurro e giù verso il mare il sole nascente dava contrasto con quelle tonalità di rosso non tipiche per quella stagione e che mi ricordavano invece l’alba d’inverno da qualche parte sulle nostre montagne, con neve e freddo pungente. Ricordo bene quei momenti e le foto ne danno conferma; guanti infilati, naso gocciolante e lacrime agli occhi, qualche faticoso scatto e giù via indietro per tornare sui nostri passi.

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La magia del mattino sui Sibillini

L’idea del percorso era la seguente: la prima parte già descritta, che da Forca di Presta, per la via più classica e battuta del gruppo, portava sulla sua cima più alta dei Sibillini. Bisognava poi tornare indietro per quel breve tratto fino a Forca delle Ciaule e proseguire sempre sulla cresta per raggiungere le cime successive: Punta di Prato Pulito, Cima del Lago, Cima del Redentore, Pizzo del Diavolo e Cima dell’Osservatorio. Saremmo poi scesi fino a Forca Viola, prendendo il sentiero per risalire al Lago di Pilato e tornando a chiudere il giro sulle Ciaule e quindi giù a Forca di Presta.

Il sole si alzava rapidamente ma il vento era ancora teso e salire su quel tratto di cresta ripido, esposto e abbastanza rovinato, richiedeva particolare attenzione. Quel tratto già percorso qualche anno prima, permetteva di raggiungere uno dei punti più panoramici della zona: il filo di cresta cominciava a piegare verso nord permettendo di ammirare il lago di Pilato da una parte e tutta la Piana di Castelluccio dall’altra. Era luglio e il tripudio di colori notoriamente famoso della zona era nella sua massima espressione.

Dall’alto della nostra postazione si aveva la sensazione che tanti secchi di vernice di diversi colori si fossero rovesciati su tutta la piana o che qualche bizzarro artista Naif si fosse divertito della sua stravaganza. Dall’altra parte invece, una stagione magra di precipitazioni, aveva ridotto le due pozze del Lago di Pilato a due tristi ma pittoreschi lacrimoni, dove le creste tutto intorno si specchiavano.

Un buon numero di escursionisti pullulava sulle sue sponde; dall’alto parevano formiche di tanti colori, le creste intorno si animavano di gente come noi. Abbiamo anche assistito attoniti al passaggio di un ragazzo con tanto di radio ad alto volume. La magia del mattino era svanita, pian piano il vento freddo perdeva vigore e il sole ci scaldava le membra, il panorama grandioso.

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La Valle del Lago di Pilato

Il quel susseguirsi quasi rettilineo di cime, soltanto una di esse era raggiungibile lasciando brevemente quella linea per ritrovarsi a ridosso del lago sottostante: Pizzo del Diavolo. Una sottile ed affilata cresta portava al suo vertice, una sorta di podio centrale su tutta quella parte dei Sibillini.

Tornammo rapidamente sulla cresta originale per iniziare la lenta e lunga discesa verso Forca Viola, un valico dove convergevano sentieri dai quattro venti: uno da Castelluccio, un sentiero che proseguiva verso Monte Argentella e tante altre cime di quel versante ed il nostro che portava verso la Valle del Lago di Pilato.

Un lungo e spettacolare traverso, quasi privo di pendenza, portava sulle esigue sponde del Lago e in quel momento ho immaginato di unirmi a quelle formiche colorate che vedevo ore prima dall’alto. All’inverso, volgendo lo sguardo sulle creste tutte intorno, visione a dir poco spettacolare, scorgevo file di “insetti” da tutte le parti; quelle montagne richiamavano a ragione un gran numero di fan!

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Il Vettore delle Emozioni

Ora non restava che riprendere il tratto di salita che riportava alla Forca delle Ciaule, mentre nuvole basse e cariche di umidità si addensavano proprio in quel tratto, avvolgendoci fastidiose. Dovevamo soltanto seguire la segnaletica in quel tratto ormai privo di visibilità e seguire il vociare di altra gente che ci avrebbe condotti al Rifugio Zilioli e di lì al tratto di discesa finale che avevamo percorso circa 10 ore prima.

Come spesso in quel frangente, mi ero isolato nei miei pensieri, sulle riflessioni. Ripercorrevo la giornata ed ero entusiasta che la mia idea era coincisa perfettamente col risultato finale; potevo esserne soddisfatto. Durante tutta la giornata, in alto su quelle creste, il mio sguardo scrutava alla ricerca di ispirazione per altri lunghi giri. Dove non arrivava lo sguardo, entrava in funzione la memoria o il desiderio di altre escursioni di quella portata sulla personale lista dei desideri. 

Sorridevo al pensiero che, se un giorno avessi scritto di queste giornate, questa in particolare l’avrei intitolata “Il Vettore delle emozioni”.
Raianaraya Nature Experience

Autore

Danilo D’Onofrio

Escursionista, amante della natura e dell’avventura. Le montagne abruzzesi sono la sua seconda casa e il suo motto preferito è “Perdersi per riuscire a trovare la giusta via”.

Dov’è Casa, il Richiamo della Natura

Sin dall’alba dei tempi, l’uomo ha sempre ricercato nella natura la sua essenza. Ogni elemento naturale con le sue caratteristiche uniche plasma la realtà circostante e consente alla vita di prosperare. Oggigiorno, seppure in una civiltà più avanzata e urbanizzata, il richiamo della natura è forte e ci consente di percepire quelle antiche connessioni che da sempre ci legano ad essa.

Autore: Raianaraya Nature Experience

Ognuno di noi, dall’istante in cui muove i primi passi in questa vita, senza esserne consapevole, inizia ad affondare delle radici profonde nella terra in cui è nato così come nella natura che lo circonda. Da quel momento, l’elaborazione della realtà circostante avviene attraverso il filtro di quelle tradizioni e quelle visioni autoctone.  Questo può essere un luogo o semplicemente un qualcosa a cui sa di appartenere e dove eventualmente può ritornare.

La vita è un concentrato di esperienze e attimi che si susseguono senza una regola precisa. In alcuni momenti siamo leggeri e in grado di muoverci sul nostro percorso liberamente, mentre in altri, attraversiamo fasi non così positive e avere dei punti di riferimento può migliorare il nostro equilibrio psicofisico.

Quali sono le nostre radici?

L’uomo è legato a molti aspetti della vita di cui spesso non ne è pienamente consapevole. In realtà, dal principio, instauriamo connessioni profonde con l’ambiente circostante e con tutto ciò che ci appare sicuro e rassicurante. Potremo azzardare con l’ipotizzare quali possano essere le nostre radici, tuttavia, potremmo incorrere nell’errore di presumere di conoscere pienamente noi stessi e ciò che ci circonda.

Non avremo tutte le facoltà per comprendere appieno la realtà a cui siamo legati, ma siamo di sicuro in grado di percepire quelle sensazioni pure e di pace che si annidano nella parte più profonda di noi stessi.

Ad esempio, quante volte entriamo in quello stato di pace assoluta stando in un luogo preciso o semplicemente trascorrendo del tempo con una persona a noi molto cara? Oppure, vi siete mai chiesti qual è quel luogo o quella realtà in cui vi sentite davvero a casa? Ecco, queste sono delle percezioni interiori che si esprimono da sé, senza alcun bisogno di doverle approfondire.

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Gli antichi legami con madre natura

Fin dall’antichità, molte civiltà hanno sentito il bisogno di raffigurare la natura come un’entità divina a sé stante, madre assoluta di quell’ambiente così vario e ricco. I Celti, ad esempio, veneravano la natura come una fonte di energia illimitata in grado di controllare e scandire tutta la realtà.

Druidi e sciamani dedicavano la loro vita all’arte della conoscenza naturale da cui apprendevano ogni insegnamento per il loro percorso spirituale, ma non solo. Infatti, la cultura celtica basava ogni aspetto della sua tradizione nelle qualità e caratteristiche degli elementi naturali come alberi, costellazioni, minerali, piante e fiori.

Generalmente conosciuta come madre natura, quest’entità rappresenta l’essenza pura del creato praticamente in ogni civiltà mai esistita fino ad oggi. Ogni fenomeno o elemento naturale ha una sua caratteristica intrinseca che in passato non poteva essere spiegata se non attraverso un ente supremo capace di creare e plasmare la realtà secondo le sue regole e necessità.

Gli Etruschi consideravano la natura come l’espressione della volontà divina. Fuoco, montagne, boschi e fiumi rappresentavano una vera e propria connessione con la dimensione ultraterrena. Per questa ragione, consideravano sacro ogni elemento della natura perché connessione diretta con il mondo degli dei.

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Il mito pelasgico della creazione

Celti, Etruschi, Egiziani e Romani, tutte le antiche civiltà sentivano di appartenere alla maestosa natura così come gli antichi pelasgi. Con il termine pelasgico si vuole identificare tutta quella popolazione della Grecia classica arcaica e tutte quelle popolazioni elleniche che si svilupparono intorno all’Egeo.

Per dimostrare l’importanza della natura nei secoli, si può citare il mito pelasgico della creazione. Al principio, Eurinome, dea di tutte le cose, emerse dal Caos e, non avendo un appiglio o un suolo su cui poggiarsi, separò il cielo dal mare e danzando creò le onde. Danzando, la magnifica dea si diresse verso Sud, ma muovendosi si rese conto che alle sue spalle si era formato un vento. Curiosa per ciò che era accaduto, afferrò questo Vento del Nord e con un tocco delle sue mani lo trasformò nel grande serpente Ofione.

La dea Eurinome continuava a danzare per sconfiggere il freddo con un ritmo sempre più furibondo. Al ché, Ofione, acceso dal desiderio, avvolse la dea nelle sue spire creando un vortice di passione. A questo punto, la dea si trasformò in una colomba e volando sul mare, una volta trascorso il tempo necessario, depose l’Uovo Universale.

Quando l’uovo si schiuse, da esso nacquero tutte le cose esistenti, ossia figlie di Eurinome: la terra, le montagne, i fiumi, gli alberi, le creature viventi, i pianeti, il sole, la luna e le stelle. Eurinome e Ofione si stabilirono sul Monte Olimpo, ma dopo un po’ di tempo, la dea Eurinome, irritata dal continuo vantarsi di Ofione che sosteneva di essere il creatore di tutto, colpì Ofione e lo recluse nei sotterranei. Infine, la divinità del tutto creò le sette planetarie: Sole, Luna, Marte, Mercurio, Giove, Venere e Saturno; e a capo di ciascun astro furono posti un Titano e una Titanessa.

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Il richiamo della natura

La Natura è una costante nella vita dell’uomo e ne caratterizza ogni aspetto della quotidianità. Infatti, nonostante la forte industrializzazione e il continuo espandersi delle aree urbane, è evidente come sempre più persone cerchino di recarsi il più spesso possibile lontano da esse.

Molti durante il tempo libero ne approfittano per una fuga dalla città per godere delle meraviglie naturalistiche presenti nei dintorni. Un’escursione in montagna, una gita sulle rive di un lago, una passeggiata in campagna, un giro in bici tra le colline o semplicemente una boccata d’aria in un parco naturalistico, queste sono solo alcune delle svariate possibilità che madre natura può offrire.

In fin dei conti, noi siamo costituiti della stessa materia di cui è fatto tutto ciò che ci circonda. Noi siamo parte integrante di questo meraviglioso creato. Ogni singola molecola è strettamente interconnessa e interagisce con le altre nell’ambiente in cui si trova seguendo regole universali. Noi partecipiamo attivamente a questa danza atomica senza neanche accorgercene e inconsciamente subiamo quell’influsso positivo che ci richiama verso la nostra vera casa, ossia la natura stessa.

Dov’è casa?

Nella Natura

Se sei anche tu un amante della natura, fai un tour nelle nostre attività!
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Siamo fatti della stessa materia di cui sono fatte le stelle

Margherita Hack

La Fauna selvatica d’Abruzzo

Una terra meravigliosa come l’Abruzzo riesce ad offrire scenari naturali mozzafiato e una fauna selvatica tra le più variegate d’Europa

Autore: Danilo D’Onofrio

Il vecchio sentiero, usato fino a decenni prima da boscaioli e pastori, si snodava nella fitta faggeta che, quando cominciava a diradarsi, lasciava spazio alle radure appena lambite dai primi raggi del sole. Procedevo lentamente e silenziosamente, quasi certo che in quella landa selvaggia, come tante altre volte, avrei potuto imbattermi in qualche incontro ravvicinato.

È bello scoprire i propri sensi allenati, sempre all’erta al minimo fruscio, allo schiocco non distante di un ramo spezzato, all’ombra furtiva tra gli alberi, all’odore del selvatico, alle impronte sulla terra o sulle ultime macchie di neve primaverile, ad alberi scortecciati e massi ribaltati, firma inconfondibile di presenze stabili ma difficilmente individuabili, come fossero fantasmi invisibili. Invece sono gli unici e legittimi abitanti delle nostre montagne, per decenni sempre in bilico tra vita ed estinzione, tra caccia, bracconaggio spietato e salvaguardia di paladini della conservazione.

Viviamo in uno dei paesi più industrializzati al mondo. La nostra regione è a due passi dal traffico della capitale: la vita pulsante delle piazze cittadine, nastri di asfalto per carovane fumose e sterrate per il divertimento dei centauri fuorilegge.

Ma la fauna selvatica riesce a convivere con tutto questo, spesso ne paga le conseguenze nell’esporsi troppo e scontrarsi con tonnellate di acciaio; ma sopravvive e si adatta, sempre più numerosa. Con un po’ di fortuna, abbiamo la possibilità di poterla osservare nel proprio ambiente, nel silenzio del cuore della natura e lontano dal carosello delle nostre esistenze.

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Avvistamenti nella Natura Selvaggia

Tante volte, vicino quelle pozze d’acqua tra il limitare del bosco e le creste tutte intorno, ho avuto la fortuna di osservare cervi col loro seguito di femmine nel periodo della riproduzione e combattimenti a suon di incornate tra i maschi adulti. Mentre mi avvicinavo, sentivo i bramiti che facevano eco tutto intorno, ma stranamente non ne sentivo arrivare dalla zona delle pozze dove ero diretto.

Poco dopo capii il motivo osservando un lupo solitario venire da quella direzione e allontanarsi lentamente verso il bosco. Mi accovacciai e lo lasciai passare senza che potesse accorgersi di me…o almeno era quello che speravo! Proseguii con passo ancora più attento, fino ad arrivare ad affacciarmi dall’alto sulle pozze, nascosto da una fascia di rocce a una ventina di metri di distanza.

Altri tre lupi, oltre al quarto che si era allontanato, stazionavano proprio nei pressi della pozza, motivo stesso per cui di cervi neanche l’ombra! Ero in una buona posizione, preparai la mia vecchia reflex armandola dell’obiettivo da 400 mm, lentamente e senza far rumore assunsi una posizione comoda evitando di farmi vedere.

L’unica cosa che poteva tradirmi era il clic dell’otturatore e, proprio a quel suono non conosciuto, i tre lupi voltarono di scatto le teste esattamente nella mia direzione. Non potevano vedermi ma sapevano che c’era qualcosa di strano e, all’ennesimo scatto, lentamente si allontanarono ognuno in una direzione diversa, come un tacito accordo in caso di imminente pericolo.

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Gli anni degli Appostamenti

È uno dei tanti episodi a cui ho assistito e l’emozione è stata sempre la stessa. C’è stato un periodo della mia esperienza da escursionista in cui mi dedicai all’osservazione della fauna selvatica, caccia fotografica, lunghi appostamenti e notti insonni. Ma osservare gli animali nel loro ambiente ripagava qualsiasi disagio e i ricordi restano cristallizzati insieme all’emozione del momento vissuto. 

Con pazienza e costanza, setacciando gli angoli più nascosti delle nostre montagne e con un’esplorazione sistematica, riuscii ad osservare diverse volte l’orso marsicano, lupi, cervi, caprioli, volpi e lepri che sbucavano all’improvviso dai cespugli. Gli animali più difficili da osservare sono i mustelidi, forse anche per le loro abitudini prettamente notturne, motivo stesso per cui li vediamo smembrati lungo le strade investiti dalle auto. 

Senza dimenticare la ricca avifauna: il volo superbo ed elegante dell’aquila o del grifone, il ticchettio del picchio sui tronchi rinsecchiti, il frullare delle ali della coturnice, i gracchi delle vette sommitali o il particolarissimo Piviere Tortolino, che dalla tundra artica ha trovato sulla Majella il suo areale di riproduzione.

Ritengo sia un privilegio, un arricchimento, un valore aggiunto quello di praticare escursionismo e avere la possibilità di osservare tante specie in un territorio tutto sommato non molto esteso ma ricco di biodiversità. Ogni gruppo montuoso ha degli aspetti che lo differenziano dagli altri vicini, per non dimenticare poi tutta quella pittoresca zona collinare che degrada in pochi chilometri verso la costa adriatica.

Il flusso di animali selvatici, ormai in costante aumento, colonizza gradualmente anche la fascia pedemontana, le tre vallate principali e i numerosi “fossi”. Questi labirinti e corridoi naturali costellano tutto quel paesaggio fatto di luoghi incolti ma anche di geometrie perfette tra vigneti ed uliveti, campi di grano, distese di girasoli, boschetti misti e querce secolari. 

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La Resilienza della Fauna Selvatica

Dobbiamo ricordare che soltanto pochi decenni addietro, animali come il lupo o l’orso rischiavano l’estinzione. Mentre il lupo resisteva alle tagliole, anche con migrazioni di centinaia di chilometri, l’orso marsicano, con la sua esigua popolazione concentrata in un piccolo areale, era in serio pericolo per diversi motivi. Nonostante sembri che per il momento il pericolo sia scongiurato, l’orso resta sotto speciale osservazione da parte degli esperti, con un continuo monitoraggio della popolazione e controllo degli spostamenti di individui per natura vagabondi.

Persone della mia generazione, che come me praticano escursionismo dagli anni ‘80, hanno potuto assistere a sostanziali cambiamenti; l’unica costante restano le montagne stesse! Ho assistito al graduale abbandono della pastorizia itinerante, quella che per secoli abitava le grotte della Majella e i vecchi stazzi in pietra che costellavano tutte le nostre montagne.

Ho assistito al graduale ripopolamento di specie di ungulati: cervi sempre più numerosi ormai facili da osservare anche tra le viuzze dei paesi, caprioli una volta sparuti e diffidenti ora vivono fino ai margini delle nostre città, camosci che saltellano agili e numerosi sulle rupi, cinghiali devastanti, l’istrice sempre più presente mentre prima sembrava una leggenda e i lupi che, attratti da tanta selvaggina, arrivano ormai nelle campagne limitrofe.

Anche l’attività venatoria, ormai in declino rispetto a decenni fa, ha contribuito a questa rinascita della fauna in generale. Purtroppo c’è chi si diverte ancora nel piazzare lacci, tagliole e qualche boccone avvelenato. L’ignoranza è dura da debellare, dovrebbe esserci una opportuna e attenta educazione ambientale per le nuove generazioni.

Dobbiamo ringraziare personalità che si sono distinte nello studio delle varie specie di animali selvatici e che si sono battute per la loro protezione insieme alle associazioni locali per la salvaguardia di questo o dell’altro. Modestamente ho dato il mio piccolo contributo informando e segnalando ai forestali o guardaparco di avvistamenti, o se notavo qualche anomalia nei miei giri.

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Un avvistamento inaspettato

Nello stesso areale dove avevo intercettato più volte i lupi, più volte ho anche avuto la fortuna di osservare l’altro protagonista dei nostri santuari naturalistici; l’orso marsicano.

Ricordo un anno in particolare. Lo ricordo bene perché mia figlia nacque in aprile e, alla fine di maggio dello stesso anno, ebbi la fortuna di avvistare dall’alto di una cresta nella zona delle Mainarde, un totale di cinque orsi, tre da una parte e altri due divisi dai primi dalla cresta stessa su cui ero appostato.

Era il periodo della riproduzione, forse il migliore per avvistarli. C’erano ancora estese macchie di neve sul terreno, sbucarono dal bosco prima del tramonto e uno di essi ci regalò anche un numero da circo lasciandosi scivolare giù per il pendio disteso sul dorso.

Se dovessi farne un cortometraggio, se dovessi fantasticare su un improbabile filmato sulla fauna selvatica d’Abruzzo, mi verrebbe in mente l’unica colonna sonora che penso appropriata: l’ululato dei lupi tante volte udito nelle notti in montagna; credo sia l’aspetto che più di ogni altra cosa mi abbia lasciato una traccia indelebile. 

Natura, fauna e trekking sono solo parte delle meraviglie nascoste dell’Abruzzo, vieni a scoprire questa affascinante regione del centro Italia in Rubrica Abruzzo.
Raianaraya Nature Experience

Autore

Danilo D’Onofrio

Escursionista, amante della natura e dell’avventura. Le montagne abruzzesi sono la sua seconda casa e il suo motto preferito è “Perdersi per riuscire a trovare la giusta via”.

Viaggio On the Road nel Selvaggio Outback Australiano

Gennaio 2015, tre giorni di viaggio on the road attraverso le lande desolate del Western Australia meridionale. Alla scoperta del comunemente noto Outback australiano, un luogo ostile che si estende per milioni di ettari su tutta l’area del Continente Rosso.

Autore: Raianaraya Nature Experience

L’Australia è un enorme continente situato tra l’Oceano Pacifico e l’Oceano Indiano. Sin da quando il famoso esploratore James Cook raggiunse le coste del New South Wales, questa terra diventò meta di viaggiatori, vagabondi e curiosi, oltre ad essere colonia penitenziaria inglese. I primi sbarchi resero immediatamente chiaro quanto difficile potesse essere sopravvivere in quella sconfinata landa desolata. La perlustrazione era complessa e di addentrarsi nel deserto non se ne parlava neanche; come poter affrontare una traversata in un luogo tanto arido e secco senza conoscerne assolutamente niente?

Tutto sommato, nei primi anni dopo la scoperta dell’Australia nel 1770 d.C., i nuovi coloni evitarono di allontanarsi troppo dall’acqua per non rischiare inutilmente in imprese azzardate. Dal secolo successivo, però, dovuto anche al rinvenimento di giacimenti d’oro nell’entroterra, si cominciò ad ipotizzare l’utilizzo di animali alquanto resistenti e adatti alle traversate. Quali esseri viventi potevano assolvere tale compito meglio dei cammelli e dei dromedari? Probabilmente nessun altro sul pianeta. Fu così che si iniziarono a importare migliaia e migliaia di cammelli e dromedari dall’Afghanistan, dall’India e dalla penisola arabica. Ad oggi, si conta una popolazione di queste specie superiore al 1.000.000 su tutto il territorio nazionale.

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Outback Australiano

Nonostante il clima ostico e le temperature tra le più calde al mondo, l’Outback australiano offre degli scenari suggestivi e ospita una fauna locale assolutamente unica. Ad esempio, alcune specie autoctone sono quelle che appartengono ai canguri, ne sono diverse e di vario genere come i wallaby, wallaroo, il canguro rosso e il canguro grigio occidentale. Ma in questi remoti antri vivono anche altre specie animali come i quokka, le aquile australiane, gli struzzi, i dingo, ossia una sorta di cani selvatici, i varani e i già menzionati cammelli.

Per circa l’80% dell’intero territorio australiano, l’outback è la sola realtà che si estende per circa un milione di chilometri quadrati. Vegetazione quasi assente si alterna a porzioni di roccia e deserto dal tipico colorito rossastro, una colorazione che ha origine dalla forte presenza di ferro nel suolo. La natura ha scolpito e modificato questo luogo arcaico, lasciando ad un occhio attento la possibilità di apprezzare dei paesaggi suggestivi e del tutto singolari. Proprio per questa ragione, una volta in Australia, era indispensabile osservare con i propri occhi questa meraviglia naturale.

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Esperance, Western Australia

Dopo aver lasciato Albany, in compagnia di due grandi esploratori come me, avevamo raggiunto la città costiera di Esperance. Nessuno aveva mai sentito il suo nome prima di allora, eppure, una volta entrati nel paese, questo luogo ci parve essere sempre più un paradiso terrestre. Il bianco candido della spiaggia e l’acqua celeste dell’oceano si fondevano dando vita ad uno scenario da sogno. Inoltre, a bordo della nostra magnifica Holden Commodore del 96’, raggiungemmo una terrazza panoramica attrezzata con vista mare.

Uno di quei servizi che ho amato da subito in Australia sono i BBQ elettrici disposti in aree attrezzate dove si può facilmente cucinare per poi pulire e permettere a chi vorrà vivere la stessa esperienza di trovare il barbecue in condizioni da poter essere utilizzato ancora. Quel giorno, riforniti di salsicce e altra carne comprata al Coles, pranzammo in questo gazebo mentre un delfino, ad intermittenza, si divertiva a sondare una precisa area del mare. Un pranzo inconsueto in una città sconosciuta senza che fosse neanche previsto sulla nostra tabella di marcia.

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Che la Traversata abbia Inizio

Allietati dal piacevole pranzo con vista mare e a costo zero, mi misi alla guida della nostra comodissima station wagon. Eravamo così entusiasti per l’avventura che ci aspettava che non stavamo più nella pelle. Percorrevamo l’infinita lingua d’asfalto nell’outback desertico carichi di gioia e per la prima volta stavamo entrando in una zona in assenza di linea. Da quel momento in poi, per circa tre giorni, non avremmo più avuto copertura telefonica.

Macinammo circa 500 chilometri, superando diversi minuscoli paesini come Norseman, Fraser Range e Balladonia. In alcuni casi, il nome del luogo che compariva sulle mappe risultava essere un semplice distributore di benzina con una baracca in legno malandata e, nei casi migliori, un motel alle spalle. Cercammo un posto dove accamparci per la notte e infine trovammo una piazzola in sterrato dove sostava soltanto un altro van. Aspettammo che calasse il sole, ammirammo le luci del tramonto accendere la terra rossa e creare un’ illusione ottica, come se tutto d’improvviso s’infuocasse e poi, in un istante, la notte portasse ogni luce nelle tenebre.

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Eucla National Park, Western Australia and South Australia border

Il giorno seguente ci svegliammo presto. Sul nostro fornellino a propano riscaldammo alcuni cornetti vuoti e li farcimmo con la nutella, ebbene sì, anche nel continente australiano non hanno potuto farne a meno. Circondati da qualche eucalipto e con i primi raggi che affioravano all’orizzonte, ci godevamo una tranquilla e silenziosa colazione nel bel mezzo dell’outback australiano, approfittando della temperatura ancora mite. Una spazzolata ai denti, una controllatina alla mappa e via di nuovo per la nostra strada.

In appena trecento chilometri circa, dopo aver attraversato in poco più di ventiquattro ore qualcosa come mille chilometri, raggiungemmo un luogo che nessuno di noi tre avrebbe mai più dimenticato: Eucla, il confine tra il Western Australia e il South Australia. Nei pressi di questo parco nazionale ci sono diversi look out, ossia punti panoramici da cui poter scorgere l’orizzonte che si perde a vista d’occhio. Ad Eucla, dopo chilometri e chilometri di asfalto e deserto, ci imbattemmo in alcuni dei paesaggi più belli che avessimo mai visto in vita nostra. Muraglioni di scogliere a strapiombo sul Mare del Sud, sconfinate spiagge e dune di un bianco candido quasi irreale e scenari così immensi da sconvolgere la vista di chiunque. Eravamo smarriti, ma totalmente felici di esserlo. Adesso non volevamo altro che tutto ciò continuasse ad accadere e che non finisse mai.

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Un Incubo che si materializza: Fermi nel deserto!

Dopo aver assistito ad uno degli spettacoli più affascinanti della natura e aver consumato un veloce pranzo con dei tramezzini home made, rimboccammo la high way in direzione di Adelaide. Viaggiammo per l’intero pomeriggio fino alle prime luci del tramonto, quando d’improvviso un tonfo accompagnato da un forte sussulto e da un lungo stridio metallico ruppe l’atmosfera di pace. L’incubo che diventa realtà, le paure più profonde che si concretizzano in un battito di ciglia: una foratura dello pneumatico nel bel mezzo del nulla e qualche istante prima che cadessero le tenebre.

Svuotammo l’intero cofano posteriore dell’auto, backpack, chitarra, fornellino, termos, acqua, cibo, materasso e borse varie per recuperare la preziosissima ruota di scorta. Iniziammo a sbullonare quel che era rimasto della ruota andata e una volta fatto ciò, non restava che inserire il nuovo pneumatico e tutto avrebbe preso la piega giusta. Il mio amico cercò di agganciare lo pneumatico di scorta al blocco di supporto, ma niente, tutto inutile, non entrava in nessun modo. Incominciammo a darci il cambio per colpire la ruota affinché in qualche maniera riuscisse a aderire al supporto, ma era complicato. I fori della ruota di scorta erano di misura diversa e non c’era quindi alcun modo per poterla far entrare. La serata stava per prendere la peggior piega possibile: da soli, di notte, senza copertura telefonica e con una gomma esplosa.

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Non tutto è perduto: l’arrivo a Ceduna

Ci demmo il cambio più e più volte, mentre, il sole ormai era calato all’orizzonte cedendo il posto a quel pallido chiarore della luna che a stento illuminava la nostra auto e l’outback attorno a noi. Avevamo quasi perso le speranze quando un calcio ben mirato del mio amico finalmente fece entrare la ruota in tre punti. Tutti e tre ci guardammo e con uno sguardo d’intesa avemmo la stessa reazione: correre ad avvitare lo pneumatico anche se storto. Completammo il lavoro e decidemmo di cominciare a muoverci ad una velocità minima, cercando di comprendere se così la ruota tenesse. Ogni dieci minuti fermavamo l’auto e controllavamo se i bulloni fossero ancora fissi.

Le prime due, tre volte alcuni bulloni si allentarono di molto, successivamente, per qualche misteriosa ragione e per volere di qualche magnanima divinità celeste, i bulloni si fissarono e riuscimmo, procedendo ad una velocità media di 40 km/h, a raggiungere un distributore di benzina e fermarci per la notte. Al mattino seguente, fummo svegliati da una decina di corvi, tra cui uno piuttosto burbero che cominciò anche a picchiettare sul tettuccio dell’auto. Per il mio amico era un brutto segno, invece, contro ogni previsione, in mattinata riuscimmo ad arrivare al primo paese con forme di vita umane dove con molta difficoltà spiegammo che la nostra station wagon fosse la nostra casa in quel periodo e che avremmo avuto bisogno di una riparazione al più presto.

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Missione Compiuta, il viaggio nel selvaggio Outback è salvo

Un muretto in pietra, sabbia e sterrato sotto i nostri piedi, uno dei compagni d’avventura, preso da un momento di malinconia, strimpellava qualche nota sulla sua chitarra, mentre sullo sfondo, il nulla cosmico si perdeva a vista d’occhio. Dopo qualche ora, la nostra auto ci fu riconsegnata pronta e pulita. Finalmente, eravamo riusciti ad ottenere una vittoria importante sull’outback australiano. L’incubo era stato allontanato e così potevamo riprendere il nostro viaggio oltrepassando la zona più wild di quella nostra traversata. Procedemmo ancora per giorni, ma questa è un’altra storia.

Le avventure in Australia non finiscono qui, ma nel frattempo, altri istanti nel continente rosso sono già nel nostro Blog.
Raianaraya Nature Experience

Un Giorno sul Lago ad Auronzo di Cadore

Un Week-end esplorando le terre scoscese ed innevate delle sensazionali Alpi Dolomitiche venete, luoghi incantati nella nostra meravigliosa Italia.

Autore: Raianaraya Nature Experience

Auronzo di Cadore è una località di montagna dell’alto Veneto, a circa trenta chilometri dalla rinomatissima Cortina d’Ampezzo. Incastonato tra le più belle vette delle Alpi, questo villaggio montano presenta degli sprazzi di natura incontaminati tra i più belli d’Italia, resi unici anche grazie alle Dolomiti che le fanno da contorno. Uno scenario incredibile che si può comprendere appieno soltanto una volta visto con i propri occhi.

Nell’articolo precedente, in compagnia della mia dolce metà e di un caro amico, avevamo affrontato una modesta escursione sul Passo Sant’Antonio, nei pressi della chiesetta di S. Anna a Padola. Lanciati nella nostra impresa, muniti di ciaspole e variopinti bastoncini da trekking, procedemmo in direzione Auronzo di Cadore per diverse ore per poi rientrare nella nostra dimora di una notte a Dosoledo, nella provincia di Belluno. Giunti al nostro riparo notturno, ecco cosa accadde!

Notte a Dosoledo

Fatto il check-in per il B&B, siamo entrati in questa rustica e accogliente abitazione tipica di montagna: soffitto con travi in legno, parquet, davanzali in legno e perfino le panche attorno al tavolo. L’appartamentino, un piccolo bilocale a piano terra, aveva tutto ciò che si potesse desiderare per trascorrere una notte d’inverno in montagna.

Una volta recuperate le forze, non poteva esserci modo migliore per passare la serata se non in compagnia di birre fresche e gustando una pasta ai funghi secchi locali, questi ultimi gentilmente offerti dal proprietario dell’appartamento. Seduti, tranquilli, accanto al fuoco della stufa e con la neve placida che imbiancava il paesaggio esterno, ci raccontammo storie e chiacchierammo fino a che il sonno prese il sopravvento su di noi.

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Esplorando i confini del Veneto

Al mattino siamo accolti da una splendida nevicata, in realtà, la neve continuava a cadere e anche insistentemente. Siamo incantati dall’evento, ma anche un po’ interdetti poiché, di questo passo, non saremo più riusciti a fare l’escursione che ci eravamo prefissati il giorno prima per raggiungere una cima nei pressi di Auronzo. Tuttavia, non ci siamo lasciati abbattere dal tempo e a bordo della nostra auto ci siamo avventurati tra i piccoli paesini montani in direzione di Sappada.

Lungo la strada siamo transitati per Santo Stefano di Cadore e San Pietro di Cadore, ma negli ampi tratti tra un paese e l’altro, le prominenti pareti dolomitiche sembravano scortarci in ogni momento. Abbiamo raggiunto Sappada in meno di un’ora e con estrema calma. D’altronde, viste le condizioni meteo avverse, non avremmo avuto chissà quali possibilità a livello escursionistico, pertanto, meglio che si spendesse il tempo in modo costruttivo e senza affrettarsi troppo. Ma in un baretto il lampo di genio: perché non andare al Lago di Auronzo di Cadore?

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Il Lago di Auronzo di Cadore

Fu così che scegliemmo la nostra nuova destinazione, il Lago di Auronzo di Cadore. Viaggiamo ad una velocità moderata per una quarantina di minuti prima di raggiungere la designata meta, nel mentre, la neve cedeva il posto alla pioggia ad intervalli irregolari rendendo l’asfalto ancora meno drenante. In ogni caso, lo spettacolo delle Dolomiti innevate come sfondo al nostro passaggio riuscivano a distogliere l’apprensione per le condizioni metereologiche. Infine, siamo sopraggiunti nel luogo prefissato e lo scenario che ci si presentò dinanzi era indescrivibile.

Gli elementi per poter valutare la bellezza di un paesaggio o di una realtà naturale sono molti, ma in questo caso, era impossibile riuscire a trovare un solo punto che potesse sfigurare quell’antico lago alpino. Lo specchio era parzialmente gelato ricordando a tratti una sorta di scenario artico. Fiocchi di neve rendevano l’atmosfera calma e confortante, mentre, ai margini del lago, un sentiero battuto si divincolava tra i diversi strati di nevicate depositatisi nel corso dell’inverno. In qualche occasione, un passo incerto ci ha giocato degli scherzi facendoci affondare anche fino all’altezza delle ginocchia. Quel giro intorno al Lago di Auronzo di Cadore è stato un meraviglioso incontro con quella natura unica presente solo sulle Alpi Dolomitiche.

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Al termine di questa meravigliosa esperienza sulle sponde del lago dolomitico, avvolti dalla candida neve ed entusiasti di come il meteo non fosse riuscito a precluderci la giornata, decidemmo di non abbandonare ancora il luogo e di assaporare ancora qualche prelibatezza locale. Infatti, trovammo una trattoria locale poco distante dal lago e riuscimmo a fare una degustazione a base di funghi e carne di cervo assolutamente sublime. Infine, dopo aver sorseggiato un’eccellente genziana locale fatta macerare con il vino, abbiamo fatto ritorno.

Quest’esperienza iniziata da Padola ha lasciato qualcosa di indelebile nel nostro profondo. In questi momenti, il presente diventa tutto ciò di cui hai bisogno e i problemi svaniscono al cospetto della maestosa natura che prevale su ogni cosa.
Raianaraya Nature Experience